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Contrariamente alle aspettative, il libro non dà affatto il senso di un’epoca, ricostruita con riferimenti di costume ripetitivi e meccanici nel continuo parallelismo con la realtà della Bosnia in guerra, tema che merita ben altre narrazioni! Stile cronachistico, privo di passione. Deludente.
Non è un romanzo sugli anni ‘80 (per quello c’è Tondelli): è un misto fra autobiografia, sfogo, autoesaltazione del Bertante da giovane, tutto preso a drogarsi, a bere pinte di birra, a fare il ribelle non si sa bene contro cosa, se non contro la sua totale irresolutezza alla vita. Sono gli anni ‘80 suoi, solo suoi, Bertante. Qualche sprazzo di bellezza e qualche guizzo, qua e là, si trova, il libro corre anche via, ma non va da nessuna parte, salvo approdare a una vaga libertà che sa di nichilismo, di anarchismo fine a se stesso. Non erano tutti sballati da manuale del perfetto conformista sballato, Bertante, negli anni ‘80. Non abbiamo passato tutti la giovinezza a farci le canne e a sfondarci di birra. Che poi il decennio sia stato un vuoto, luccisoso, e anche marcio galleggiare su un nulla infiocchettato dalle tv berlusconiane e dalla rai, da chiamare ugualmente in correo, non ci piove. L’idea di parlare della guerra di Bosnia era buona, ma viene sprecata quasi del tutto, a favore delle solite avventure beverecce, para-erotiche e alla smargiassata dell’uomo vissuto sprezzante di regole e pericolo a tutti i costi che il Bertante vuol incarnare. Ah, Bertante, a proposito, i Toto non erano tre ciccioni italoamericani: erano fior fiore di musicisti, che hanno suonato in mezza discografia mondiale fra gli ‘80 e i ‘90 (perfino in un disco di Ricky Gianco). Ma lei non lo poteva sapere, Bertante, perché ascoltava la cianfrusaglia molesta del punk, fra i cui esecutori non c’era un solo musicista degno di questo titolo. Manco a pagarlo oro.