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Quando il mondo si sgretola troppo vicino a noi, e non solo metaforicamente, il luogo dove rifugiarci è la casa. O un libro che contenga una casa. Come «L’albero di stanze» (Marsilio) di Giuseppe Lupo che, fin dalla copertina, ci mostra una casa a forma di albero, ogni ramo per un ramo della famiglia in un guazzabuglio di spigoli e tetti, con i mattoni fatti di pietra e farina perché chi la costruì, il bisnonno patriarca, era cavatore e mugnaio. Mattoni che ora, cioè negli ultimi giorni del secolo scorso, quando è ambientato il romanzo e quando la casa sta per essere venduta, parlano a Babele Bensalem, il protagonista sordo di orecchi ma non di cuore, raccontandogli una storia antica da non dimenticare in queste pagine immaginifiche che sono un lungo e amorevole addio per un nuovo meraviglioso inizio.
Ho letto questo romanzo essendomi calato nei panni di un bambino sensibile, curioso e fantasioso, cresciuto in una numerosa famiglia patriarcale di un piccolo paese dove le relazioni familiari ed extrafamiliari hanno valenze sconosciute in una grande città. Ma non è di quel bambino che si racconta in questo romanzo, bensì di un medico, sordo, che vive a Parigi, con moglie e figlie e che torna al paese di origine per vendere la casa dove ha vissuto quel bambino di cui dicevo prima. Una scrittura sospesa in un gioco di rimbalzi tra ingenuità della favola e radicalità di un’antropologia arcaica, caratterizzata da un linguaggio popolare e aulico nello stesso tempo, messo in bocca a personaggi di grande intelligenza, che però non sempre lo padroneggiano, sballottati fra religione, superstizione e Bibbia che si affaccia con nomi, intercalari di formule, brandelli di proverbi, preghiere e distorte citazioni latine, litanie… Mille e mille letture e i ricordi delle storie di famiglia si mescolano fra loro, sublimati, come l’impasto di calce e farina usato dal capostipite per innalzare ‘l’albero di stanze’ a dispetto di ogni legge di statica.. C’è pure la magia (con tanto di prodigiosa guarigione di una bambina dopo l’imposizione di una pietra ner) e persino qualche visione felliniana (l’uomo Pelikan che quasi spicca il volo dal cappuccio di una vecchia stilografica). Ma la radice autentica di tutto è la famiglia: il timore della sua assenza emerge dalle pause narrative dedicate a moglie e figlie del protagonista (la famiglia attuale rimasta a Parigi in attesa del nuovo millennio e del rientro di Pépé Babèl ) che si intrecciano con la saga della famiglia antica, punteggiata da partenze e scomparse. «… non aveva un passato da dimenticare, solo un avvenire da attendere con la freschezza della sua gioventù»: sintetica rappresentazione dell’entusiasmo di chi è partito per consapevole scelta, «per seguir virtute e canoscenza».