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E’ un bel romanzo. A parte un inizio un po’ banale, poi gli elementi della narrazione ci sono tutti: la storia colpisce e avvince mano a mano che si dipana, la voglia di vedere cosa succede dopo e la tensione verso il finale diventano sempre più forti, dunque, sotto questo profilo, direi che è un libro ben riuscito. Dal punto di vista del messaggio lanciato, direi che l’autrice è stata molto onesta: ha messo a nudo tutta la delusione del fallimento del sogno del comunismo senza nascondere proprio niente, nè i tormenti personali del protagonista (che in quel sogno aveva creduto, forse come lei), nè i drammi e le tragedie di un passato che non si può semplicemente liquidare rimpiattandosi dietro ad inutili giustificazioni o dimenticanze. Ma qui il discorso diventerebbe davvero lungo e l’autrice, credo, ha voluto dirci che non si può dire «ma quello non era comunismo
Banale la storia, banale la scrittura, quello che ci vuole per avere successo in tempi banali.
Prima di leggere questo libro ero un pò scettica ma ho dovuto ritornare sui miei passi quasi subito dal momento che l’ho divorato in poche ore e mi è piaciuto molto.
Cristina Comencini nel suo ultimo romanzo ci racconta una generazione di uomini che non hanno più ideali, perchè quelli in cui credevano li hanno delusi fortemente. Il dipanarsi della storia di Mario, Sonja, Irina, Roberto e tutti gli altri si snoda non senza sorprese e ci regala momenti molto intensi (il viaggio a Budapest su tutti). L’autrice sa narrare in maniera profonda e scorrevole le dinamiche della famiglia italiana contemporanea, in ogni suo romanzo c’è un nucleo familiare più o meno allargato, unito o meno, ma viene sempre descritto con autenticità. Per riflettere sul comunismo e non solo.