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In tutta franchezza mi aspettavo qualcosa in più. L’argomento è forte, difficile da affrontare, ma il contesto narrativo in cui viene inserito è di una fragilità disarmante. Da apprezzare lo sforzo di rendere l’idea della ineluttabilità del destino degli internati, da qui, immagino, le storie raccontate in una sorta di mordi e fuggi senza indugiare sui dettagli più macabri, ma questo è l’unico aspetto di reale valore narrativo che riesco a portarmi via da questo libro.
Frau Kiesel, un’anziana tedesca «pura» sopravvissuta ai campi di concentramento di Ravensbruck e Buchenwald, racconta la sua triste storia come prigioniera «privilegiata» nel Sonderbau, il bordello di Buchenwald. La sua colpa? Essere fidanzata con un ebreo tedesco. Racconta la sua storia all’ambiziosa scrittrice italo-tedesca Sveva il cui compito è di raccogliere la sua testimonianza e sriverci poi un libro. E’ una storia scioccante considerando la scarsa diffusione di notizie in merito ai bordelli nel lager. Il libro, nelle sue 200 pagine, ti immerge subito nelle vicende del campo lasciando poco spazio ad avvenimenti esterni che avrebbero deviato inutilmente l’attenzione. L’unica pecca è che essendo un argomento così d’impatto e drammatico, il linguaggio è poco crudo e viene usata una sorta di delicatezza nel descrivere le cose che non credo facesse parte del comportamento nei lager. E’ «una testimonianza di come il senso dell’uomo era stato violato durante il regime di Hitler di come il valore assoluto della vita e della dignità dell’individuo era stato brutalmente calpestato dai nazisti». Sei lì che leggi e sei incredulo, inorridito, indignato ma allo stesso tempo neanche lontanamente vicino a capire l’orrore che è stato. Poi ti ritrovi davanti a un passaggio come questo «Ogni volta che vedevo quel trabiccolo stracolmo di cadaveri, mi sembrava che gridasse scandalo al cielo. A un cielo dal quale un Dio immobile e distratto non era riuscito a dare un solo segno della sua presenza al campo. Un padreterno dall’inconcepibile tolleranza del male. No, io non ho mai notato il benchè minimo segno della presenza di Dio a Buchenwald!» e ti chiedi come possa essere stato possibile e ti rendi conto che Dio non c’entra niente e nessuno aveva più ragione di Hobbes quando diceva «homo homini lupus» … l’uomo è lupo di se stesso.
Su questo tema ho trovato decisamente più interessante, e se lo trovate lo consiglio vivamente, «La casa delle bambole»-Ka-tzetnik 135633 di Yahiel De-Nur, doloroso e molto più profondo, in un certo senso indimenticabile. La Baracca mi ha invece un po’ delusa, mi aspettavo di meglio, dato l’argomento delicato e forte nello stesso tempo. Voto 3, diciamo, per non dimenticare….
Ho trovato piacevole questo libro. E’ molto scorrevole, tratta di un tema davvero toccante e riesce a trasmettere un senso d’angoscia e di repulsione. Insomma, c’erano tutti i presupposti per scrivere un romanzo superbo, eppure non penso che l’argomento sia stato approfondito adeguatamente. La prima cosa che ho pensato, addentrandomi nel racconto, è stata che l’autrice avesse trovato un pretesto comune per introdurre la narrazione della tragedia: una signora anziana che, avendo incontrato «per caso» una scrittrice in ascesa, decide di «denunciare» gli orrori e i soprusi di argomenti fino ad allora taciuti riguardo all’Olocausto. Una trovata come un’altra per dare subito inizio alla rievocazione dei fatti. Sicuramente avrebbe potuto sforzarsi di più per essere un tantino più originale. Inoltre avrebbe dovuto soffermarsi maggiormente sul dramma della protagonista che si trova in quel «bordello» ad accettare la sua nuova e degradante condizione, invece è stata frettolosa e si è subito precipitata al punto in cui la situazione della protagonista è divenuta una «routine». In compenso ho apprezzato molto la descrizione degli effetti che la mostruosa esperienza ha sortito sulla donna. In ogni caso il romanzo è breve, scorrevole e, tutto sommato, interessante. Sicuramente fa riflettere!