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Un romanzo diviso in due parti, con due racconti apparentementi diversi uno dall’altro, ma che invece, a mio avviso , si collegano benissimo in quanto caratterizzati da una forte connotazione partenopea, con la città del Vesuvio a far da sfondo e spesso da protagonista delle faccende narrate. Il primo segmento, da cui il titolo del romanzo, è la comunista Rea questo personaggio l’aveva già messo in evidenza nel suo libro «Mistero Napoletano» cercando di capirne il perchè della morte, adesso però ritorna sottoforma di fantasma e fa una quadro della situazione di Napoli dei giorni nostri. «La comunista» altro non è che una giornalista della redazione napoletana dell’Unità, organo del PCI, tale Francesca Spada morta suicida negli anni sessanta e idealizzata dall’autore come una sorta di presenza benigna capace di dare cosigli e ammonimenti non solo di carattere politico, ma anche comportamentale e sociale. Da sottolineare gli intensi scambi di battute e di opinioni tra l’io narrante e «la comunista». In questi dialoghi emerge e spicca una forte voglia di riscatto sociale sia di Napoli che del Sud Italia in generale. Il secondo racconto, «l’occhio del Vesuvio» vede al centro dell’opera una villa di Torre del Greco zeppa di libri antichi, il proprietario della stessa ,cioè un anziano bibliofilo, un immigrato polacco, Tadeusz, capace di fare miracoli come falegname e soprattutto l’incombente e minacciosa presenza del Vulcano che sovraintende e supervisiona tutte le cose e fa sì che tutto debba in qualche modo essere legittimato dai suoi eventuali capricci. Da sottolineare in questo racconto lo scambio di opinioni apparentemente distanti come pensiero e digressioni tra il bibliofilo e l’immigrato dell’est Europa quest’ultimo però, pur ritornando poi in Polonia, ammetterà che il modo di pensare e di agire interiorizzato vivendo all’ombra del Vesuvio lo aveva trasformato facendolo diventare sì fatalista , ma anche più sereno nell’affrontare la quotidianità Bel testo
Noiosissimo. Retorico, assolutamente senza ispirazione. Lo sconsiglio vivamente. Avevo letto le solite recensioni positive sui giornali. Poi la copertina stile Einaudi inganna.
Nei due racconti di cui si compone questo libro dello scrittore partenopeo Ermanno Rea, Napoli entra per così dire di sbieco: non nell’intelaiatura linguistica, che è classicamente tersa, lontana da sperimentalismi e da espressioni vernacolari nemmeno concretamente nella trama, anche se nel primo è evocata in alcuni quartieri, chiese, e nei recenti problemi legati allo smaltimento dei rifiuti, e nel secondo incombe minaccioso ma dormiente il profilo del Vesuvio su Torre del Greco. E forse neanche nel carattere dei personaggi, per quanto Rea faccia spesso riferimento al fatalismo e all’indolenza dei suoi concittadini. Sono racconti che potrebbero essere ambientati anche altrove, e si snodano pacati nella tranquilla narrazione, scevra di sorprese o soprassalti, di due incontri fuori dell’ordinario. «La comunista» del primo racconto è il fantasma di una donna, un tempo amata dallo scrittore e descritta in un suo contestato romanzo di successo («Francesca era una disubbidiente nata, un’irregolare per scelta ideologica prima ancora che per indole») che gli appare improvvisamente una sera piovosa, e lo accompagna in un suo percorso mentale e materiale attraverso la città scoraggiata e delusa, invitandolo a una presa di coscienza più utopisticamente ottimista, nella speranza di un riscatto sociale di tutta la realtà meridionale. Il secondo racconto ci presenta un anziano professore, vedovo e ricco, « affetto da bibliomania devastante