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Se «La leggenda del morto contento» è un titolo che già di suo invoglia al sorriso, non è una leggenda, no, che i libri di Vitali portino contentezza. Io li leggo appunto così, sorridendo, e dopo mi sento meglio, anche quando ci sono dei morti. La penna delicata, che pure resta attaccata alla carta per la scrittura potente nella quale l’autore si distingue, porta allegrezza persino se la narrazione sceglie di sacrificare alcuni dei personaggi (si sa, i personaggi vivono di vita propria, gli scrittori lo dicono) di uno scenario, quello vitaliano, sul quale io lettrice vorrei non calasse mai il sipario. In questo romanzo, personaggi forti sono anche il vento nelle sue declinazioni lacustri e, l’ho sentito più che negli altri forse, il lago che è sempre quello eppure - non sembra anche a voi? - sempre nuovo, nel continuare a svelare la geografia dell’animo umano stavolta in un’ambientazione storica diversa dai precedenti libri.
perché i libri di Vitali non sono lunghi 800 pagine? starei giorni interi a leggere le sue storie argute, salaci, agrodolci, sottilmente ciniche ma spassosissime. nessun suo romanzo mi ha mai deluso, anzi, mi intrattiene e stuzzica ogni volta. leggero, ma profondo acuto osservatore, sagace e intelligente, sa creare intrecci e quadri di vita davvero brillanti e originali. ho letto tutti i suoi libri, ma mi conservo gli ultimi due titoli usciti per quando avrò bisogno di buonumore, di quel sano sorriso che scaturisce spontaneamente quando mi addentro tra le sue pagine, tra i nomi improponibili e le assurde peripezie dei suoi personaggi.
Questo non è il solito libro di Vitali. Intanto è ambientato nel XIX secolo. E poi non è una commedia. Piuttosto un affresco della meschinità umana. Il ritmo è decisamente blando. La trama un pretesto per tratteggiare un quadro impietoso di un’umanità spesso intenta solo a prevaricare. Il libro sembra una critica alla ricerca spasmodica del singolo di imporre la propria (presunta) superiorità agli altri, di mettersi su un piedestallo per godere del vile piacere di umiliare il prossimo. Nessuno pare immune da questo vizio: la scia infinita delle orrende comari di rione, il pretore e relativa consorte, il tronfio poliziotto, anche il podestà, a modo suo, o il guardiano del molo. Pure l’uomo più ricco del paese, impegnato costantemente ad accumulare «roba». La minoranza sono le «vittime della prevaricazione» e le comparse, come gli scriteriati ragazzi annegati nel lago durante una traversata per futili motivi (soddisfare la propria libidine), i genitori degli annegati, le altre famiglie ricche del paese. Tutti, però, compresi nel proprio mondo, nella miope ricerca del proprio tornaconto o nella coltivazione del proprio orticello, a prescindere. Intendiamoci, la vita non è fatta di solo altruismo. Ma egoismo e altruismo devono costituire una miscela bilanciata. L’unico personaggio che, in qualche modo si salva, è proprio il morto contento. Il suo gesto estremo, che potrebbe essere interpretato come un ultimo, definitivo ed egoistico «vaffa» alla moglie-arpia e alle comari, in realtà è un modo condivisibile o meno di congedarsi quando ancora la vita, pur trascorsa in cella, risulta vivibile e, soprattutto, quando ha finalmente appurato di essere innocente, non tanto agli occhi della giustizia, ma di se stesso. Un suicidio per inedia, dettato paradossalmente dall’istinto di conservazione. E, paradossalmente, l’unico atto «egoista» dell’intero libro che il lettore non si sente di poter totalmente censurare.
Libro piacevole, con qualche colpo di coda a sorpresa nel finale.