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La poesia di Vittorino Curci oramai evidentemente matura, dimostra in questa raccolta la sua certa “statura” nel panorama della poesia italiana contemporanea. Partendo dalla tradizione facilmente ripresa da molti recensori come fonte di conoscenza esatta, possiamo considerare, azzardando paragoni, Curci alla stregua di Bodini e Scotellaro, al cospetto dei quali il poeta nocese sembra trovarsi a suo aggio, tanto da apparire in alcune sue raffinate ed alte uscite poetiche, (si noti la parte iniziale di “Astemie” in Resistenza alla luce, e quella finale di “Tutti fermi” in Dopo lunghi appostamenti) anche ben oltre ogni aspettativa di paragone. La dimensione lirica di questa poesia, dotata di misura, e di intelligenza nel respiro, alterna con grossa facilità ne “La stanchezza della specie” un tono che oscilla, tra “l’epico”(in senso lato), dove l’epico è dell’oscuro, nel rapporto tra le cose, l’epico dell’io che si pone all’interno della “definizione poetica di mondo”, e una tensione lirica “fredda” molto vicina alla cifra stilistica della poesia civile, dove la retorica del visione viene meno per lasciare posto ad una contemplazione lucida del quotidiano. Tra slanci di vitalismo e malinconie sempre ben controllate, Curci propone la prosa poetica di un vissuto che viene percorso con una particolare attenzione verso la realizzazione del connubio (per quanto ovvio da ricordare) tra il motivo fattuale e il motivo psicologico. Ovviamente la realtà nel suo divenire in poesia, come oggetto estetico, è un unità originariamente affermata, che se in grado di emozionare, e comunicare, deve essere anche oggetto costituito ed appreso da una coscienza immaginativa che lo pone come irreale, oneiroide, distante, spesso solo difficile da comprendere: in questo senso si colloca la constatazione che in questa poesia le significazioni siano spesso oscure, meglio dire “non sempre usuali” dove la significazione non appare diretta e omologante “La stanchezza della specie” è una delle migliori pubblicazioni di poesia degli ultimi anni.
Il giudizio di Maurizio Cucchi (su Lo Specchio, il supplemento settimanale del quotidiano La Stampa) è il seguente: «Autore pugliese di 53 anni, Vittorino Curci, già vincitore di un Premio Montale per l’inedito, pubblica ora il suo libro più ricco e maturo. Lirico raffinato e colto, ironico e sottile, malinconico ma anche vitale, sempre misurato nello stile, trova diverse soluzioni interessanti, e soprattutto nelle compatte prose poetiche, che alterna a componimenti in versi di vario stile e tono». Giudizio che condivido pienamente. «La stanchezza della specie» è un libro notevole. Il migliore, di poesia, che ho letto negli ultimi tempi.
Ha attraversato la solitudine, l’ha attraversata senza sconti e fino all’estremo il poeta pugliese Vittorino Curci, per giungere alla compiutezza di questo nuovo lavoro :”La stanchezza della specie”.Conseguenza di quel percorso vissuto in solitudine «Io duro fatica a vincere /il gesto che nessuno intende» (V. Curci – Sospeso fra due solitudini estreme) è la conquista del silenzio che appare già nella prima epigrafe di questa nuova raccolta:«Tacere significa soltanto non dire niente, restare muti? Oppure può veramente tacere soltanto chi ha qualcosa da dire?» (Martin Heidegger). Un silenzio non vuoto ma ricco di significati, non ultimo quell’interrogarsi sulle radici del vivere che poggia su una sensibilità che non resta indifferente all’evidenza di un degrado sociale sempre più diffuso: «prendiamo atto di quel che succede là fuori/mai più ambizioni e vestiti bianchi/futurismi che non è facile raccontare/a volte anche noi ci rassegniamo al peggio/riconosciamo il tatto il passo/la lezione sui tempi l’inabissarsi/di una terra nera/questo no, non si può tacere/si sono estinti in silenzio» In questo silenzio quella che risuona è la voce della memoria di un tempo in cui c’erano ancora certezze o speranze «Qui c’era il cinema le domeniche d’inverno/Qui c’erano i sogni dei ragazzi/le promesse/ liminari del tempo….» l’opposto dei sentimenti di “stanchezza” che apparentemente sembrano prevalere in questa nuova raccolta.La stanchezza non è infatti atteggiamento di rinuncia e sconfitta. Al contrario questa riflessione sull’ esistenza, su un presente vacillante di certezze alimenta il bisogno di far risuonare la propria voce, la voce della immaginazione poetica. In questo ultima raccolta il percorso di ricerca umana ed espressiva perseguito con tenacia dal poeta Curci, che da anni scrive e pubblica versi spesso attraverso l’autoproduzione, sembra giungere ad una maturità formale riconosciuta da gran parte della critica e non da ultimo dall’autorevole giudizio espresso da Maurizio Cucchi sulla stampa web
Vittorino Curci, musicista jazz e poeta di Noci, dopo aver diffuso le sue prime raccolte utilizzando la via alternativa dell’autoproduzione, ha da poco pubblicato “La stanchezza della specie” con la casa editrice LietoColle. Curci è poeta navigato, tra le voci più autentiche della poesia pugliese, già vincitore nel ’97 del Premio Bodini e nel ’99 del Premio Montale per la sezione “Inediti”. Con “La stanchezza della specie” raggiunge risultati di estrema potenza visionaria, consegnandoci una realtà squarciata e infetta, attraverso un dettato linguistico mai sproporzionato, ma sempre ben levigato e razionale, nell’utilizzo dell’analogia non come semplice orpello manierista, ma come occhio che squaderna il contemporaneo, abbracciando il cosmo minimo del privato, con incursioni serrate nel macrocosmo rappresentato dal mondo che fuori si agita. Se di Montale Curci conserva un certo amore per accostamenti atipici che producono significazioni oscure, è grazie all’affezione per i versi di Vittorio Bodini e Rocco Scotellaro che si può comprendere la cifra stilistica del poetare di Curci. Bodini, con il suo sud che deborda dal reale grazie all’insegnamento del surrealismo della poesia iberica, Scotellaro, con la sua disposizione naturale verso una cantabilità ariosa, mossa da fresca spinta vitale, del mondo rurale a cui appartiene, sembrano essere per Curci padri putativi della sua scrittura. È al sud che Curci guarda, al sud che è stato e che tutt’ora è, visto dal poeta con le sue lenti spinose e lisergiche tanto da trasformarlo nella parte di un tutto in liquefazione: “prendiamo atto di quel che succede là fuori / mai più ambizioni e vestiti bianchi / futurismi che non è facile raccontare / a volte anche noi ci rassegniamo al peggio / riconosciamo il tatto il passo / la lezione sui tempi / l’inabissarsi / in una terra nera / questo no, non si può tacere / si sono estinti in silenzio”. Uno dei migliori testi di poesia del 2005.