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Buono, gustoso, quasi ottimo. Il cuoco Klavan conosce come pochi la ricetta del thriller, e non si accontenta di rimescolare gli ingredienti che ben conosciamo (il morto, il detective, il cattivo, la femme fatale…) per servirci un fast read da viaggio in treno o da fila alla posta, dal sapore ben noto e senza sorprese. Klavan cambia lo schema consacrato dalla tradizione affronta la storia da un punto di vista che non è quello dell’eroe, positivo o negativo, ma dell’ ordinary man nè bello nè dannato, che si ritrova perfettamente nella sua routine buon lavoro-bella famiglia. Finchè non gliela sconvolgono accadimenti la cui spiegazione non è mai del tutto convincente, costringendolo a guardare tutte le persone (soprattutto quelle che crede di conoscere meglio) con occhio nuovo. Al nostro non difettano acume e sensibilità: di mestiere fa lo strizzacervelli, come dicono nei territori a stelle e strisce. Quindi sa che ognuno è frutto (buono o velenoso, o tutt’e due) del proprio passato, e che in esso c’è la spiegazione di tutto quel che siamo, o saremo prima o poi. Quindi sa che per uscire dal suo incubo è lì che dovrà affondare le mani. Quello che troverà, o che gli cascherà addosso, dilanierà prima le sue certezze, poi la sua coscienza. I personaggi sono vivi, acquistano una gestualità, un timbro di voce, un modo di essere nella nostra mente di lettori che solo un grande narratore riesce a dare. La storia è solida e coerente, con l’unico difetto di un finale che non può sorprenderci, una specie di scacco matto narrativo. Ma, nonostante questo, Klavan sa incatenarci al libro fino all’ultima parola, e quando chiudiamo il volume abbiamo già un po’ di nostalgia del buon Cal, della dolce Marie, dell’angelico Peter… E della voce di Klavan che ce li racconta.
Ultima fatica di Klavan, scrittore che ho molto apprezzato nella serie di Shadowman, e che in questa sua opera tratta di una situazione ingarbugliata tra uno psicologo, voce narrante, il centro che segue e un ragazzo in particolare, e il rapporto con sua moglie, che gli provoca sudori freddi. Una prima parte francamente da buttare o quasi: sarà la scarsa concentrazione provocatami dal nessun interesse per ciò che leggevo, ma se avessi provato un milligrammo in più di noia avrei abbandonato alla sua sorte l’insulso libello. Poi… s’accende come un petardo, portandomi dentro la storia, dando un senso e una compiutezza inutilmente cercata per buona parte delle pagine precedenti - e parlo di oltre metà libro - ma le polveri sono bagnate, e stancamente si trascina a un finale invero molto telefonato. L’andazzo si intuisce quasi sempre in anticipo, e del resto non si tratta tanto di mantenere ignoto un complotto o un assassino, quanto trattare l’esperienza del protagonista nei confronti della sua scienza, la psicologia, in relazione a una situazione di tensione estrema. Francamente dall’autore mi aspettavo di più, meno male che l’ho preso in biblioteca.
Per chi come me ha amato i capolavori di Kaplan (Prima di mezzanotte, l’ora delle bestie, pioggia sporca, non dire una parola, giustizia sommaria) leggere questo libertucolo è una pena immensa. I geni quando non hanno più nulla da dire dovrebbero ritirasi in silenzio, contenti di quello che hanno scritto, e non usare la loro notorietà per allungare il conto in banca con opere indegne come questa.