|
Negli ultimi anni, soprattutto in Inghilterra, il fenomeno della letteratura «postcoloniale» è esploso con effetti a volte disastrosi. Ricorda un pò quanto Spike Lee qualche anno fa diceva che in America bastava essere neri per poter fare film, anche senza idee. Monica Alì ha ben poco da dire di nuovo sull’argomento e sulla dicotomia integrazione/integrità e lo dice anche in modo abbastanza noioso.
Un libro che permette di capire le difficoltà a cui vanno incontro le popolazioni extra-comunitarie per inserirsi in una realtà occidentale … in questo caso la popolazione del bangladesh a Londra. Carino, ma forse più adatto per un pubblico femminile e con 100 pagine di troppo.
Anch’io, come Libetta, mi sono avvicinata a questo romanzo dopo aver letto «L’omonimo
Un misto tra uno stile allusivo molto gradevole e delle pagine (dalla seconda meta’ soprattutto) cariche, esagerate, che puntano alle emozioni facili e paiono tratte da una fiction. Sembrano esserci delle costanti nei libri che parlano di indiani espatriati, al di la’ della intuibile nostalgia ed il formare una comunita’ tra loro (che pure e’ presente in abbondanza), inoltre frequenti descrizioni di cibi e di come vengono cucinati, immancabili mogli da matrimonio combinato che pian piano scoprono di apprezzare il marito e di amarlo piu’ di qualsiasi matrimonio che abbia l’amore all’origine, la ribellione dei figli nati in America od Inghilterra ed il loro prevedibile disinteresse per le tradizioni dei genitori. Nel «genere» rimane sempre piu’ brava Jhumpa Lahiri, soprattutto nei suoi racconti d’esordio, minimalisti quantomeno (mentre il suo romanzo L’omonimo ha molti punti di contatto con Sette mari).