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Cibrario con un’eleganza discreta, annoda per tutta la trama fili sottili, per poi scioglierli con maestria e dolcezza attraverso gli occhi del vecchio Griot. Un romanzo lieve e penetrante, come l’odore della neve.
Bello soltanto il titolo, preso da una poesia di Dylan Thomas. Nel romanzo a mio parere pesano due grossi errori di fondo, abbastanza «gravi» per chi scrive di fiction: 1. narrare le vicende da diversi punti di vista ma facendolo senza continuità e logica (servendosi dei personaggi all’occorrenza, quando fa comodo per sbrogliare i nodi o per allungare un po’ il brodo) 2. mettere in scena ben due eventi funesti da indagine investigativa e giudiziaria (ad un certo punto il libro sembra prendere una trama gialla) per poi lasciarli senza soluzione, anzi addirittura risolvendo banalmente uno dei due casi con una sorta di autoconfessione nelle pagine finali (ad opera dell’ennesima voce narrante di comodo!). E dire che inizialmente il romanzo mi sembrava riprendere un po’ le atmosfere di «La solitudine dei numeri primi» e addirittura quelle sublimi di «XY». Invece è solo… neve, tanta neve che alla fine stufa personaggi abbozzati e tanta ripetitività. Peccato per il personaggio di Violaine che poteva essere la protagonista assoluta della trama ma solo con un maggior approfondimento sul personaggio. Mi unisco alla domanda di qualche lettrice che si chiede giustamente: ma cosa voleva fare la bambina alla fine?
Libro decisamente bello ed avvicente.Grandissima capacità di far vivere tutti i personaggi nelle loro intime emozioni.
Mi piace molto lo stile della Cibrario e in questo romanzo mi è piaciuto molto il suo alternare l’io narrante in modo che il lettore entri dentro la storia che fa disgraziatamente incontrare diversi nuclei familiari dandoci così la vesione personale dei fatti come è vista e sentita dai diversi personaggi. Proprio un bel romanzo su drammi familiari di tutti i giorni.