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Ci sono molti libri che parlano della situazione ebraica durante il periodo bellico ma questo racconto, che si svolge prevalentemente in svizzera, ci apre una finestra su di una realtà sconosciuta ai più. Il delicato ruolo della neutrale svizzera, che accolse tantissimi rifugiati, ebrei e non, e alla quale doverosamente dobbiamo essere tutti grati per aver evitato la morte certa di tanti e tanti nostri connazionali. Poi si può criticare tutto, se si vuole. La storia è a parer mio ben raccontata, con stile quasi giornalistico, senza falsi pietisimi, nessuno si piange addosso. Dovrebbe leggerla un buon regista. Sono sicura che ne trarebbe un bel film.
Questo libro mi è piaciuto molto e l’ho trovato particolare: non solo per le circostanze storiche nelle quali la parte principale della storia è ambientata, anche se con i tempi che corrono mi sembra tuttaltro che superfluo «ricordare» quelle vicende abominevoli, soprattutto per quelli che non le hanno vissute non solo per la forza e l’autenticità di molti dei personaggi che popolano il racconto non solo per la fluidità dei dialoghi, che considero la parte più riuscita dell’opera non solo per il sovrapporsi dei tre tempi narrativi, trattata con talento e originalità e non solo per la riflessione che suscita la domanda «Ma chi può essere considerato eticamente il vero proprietario dell’uovo?». Per me Tempo di Fuga è un bellissino libro per l’intreccio di tutte queste ragioni.
Sempre più, nella letteratura enorme che riguarda la tragedia del popolo ebraico nella II Guerra Mondiale, sembra che lo scrivere su un argomento tanto doloroso dia una specie di passepartout per dare il viatico di libro «imperdibile» anche a opere che realmente sono poco più che un esercizio calligrafico. Non mi pare che questo «Tempo di fuga» si discosti da ciò. Ho iniziato a leggerlo, incuriosita dal battage che aveva accompagnato la sua uscita e la delusione è arrivata dopo un davvero breve numero di pagine. In una intervista all’autrice, questa dichiarava di essersi servita in parte dei ricordi della sua famiglia di adozione ma proprio qui è il nodo del problema. Scrivere rispettando il canone di tre livelli temporali diversi, che spaziano nell’arco dell’intero Novecento, non è di per sè già cosa semplice e la pretenziosità si rivela mano a mano che ci si inoltra nel libro. Le vicende dei nuclei familiari rifugiati in Svizzera sono un misto di cronachismo e tentativo di introspezione psicologica, mentre la narrazione della vicenda russo-francese è francamente di una «povertà» che sconcerta. Meglio la parte contemporanea, la descrizione di un ambiente tipicamente alto-borghese di Torino funziona,il milieu dell’Autrice le consente di renderlo con una certa sottigliezza. Come il suo essere donna l’aiuta a esprimere il meglio nelle descrizioni dei caratteri femminili. Ciò però nom mi impedisce di ribadire il concetto espresso all’inizio… E’ un libro che non aggiunge niente, non trasmette alcuna emozione al lettore. Non basta una copertina con foto d’antan per dare il senso della precarietà e angoscia di quegli anni.
belllissimo..indescrivibile..non l’ho ancora finito..ma ho già capio che la scrittrice è geniale..e dalle fto anche bellissima.. pensate che l’ho vista dal vero!! i suoi passi delicatifacevano sembrare la sua camminata 1 ballo..la sua voce è così dolce..ed è 1 pure scrittrice!!!fantastca..molto semplicemente!